Superbike
SBK, intervista a Davide Giugliano: «Correre? Solo da professionista»
Davide Giugliano parla a ruota libera del suo futuro e fotografa la situazione del motociclismo sportivo, sottolineando i problemi del settore
Davide Giugliano è uno che in moto sa andare forte. Anzi, fortissimo. Ha corso e vinto in Superstock, ha mostrato tantissima grinta e velocità al debutto in SBK. E’ stato il primo a raccogliere qualche soddisfazione in sella alla difficilissima Ducati Panigale SBK nella sua prima incarnazione ed ha accettato di tornare in sella dopo aver assaggiato con troppa violenza il sapore dell’asfalto. Davide poteva perdere tantissimo, ma l’amore per le moto ha sempre avuto la meglio e nonostante due terribili infortuni, è tornato in sella più determinato che mai. Nel 2017 è stato scelto da Honda per sostituire lo sfortunato Nicky Hayden ed è migliorato ad ogni uscita, dimostrando anche sulla ostica CBR 2017 di avere il potenziale per fare bene. Davide Giugliano racconta adesso la sua situazione, le sue sensazioni, parlando a cuore aperto da appassionato profondamente innamorato di un mondo non sempre equo con il talento.
Davide Giugliano, per prima cosa vogliamo sapere come stai, come stai affrontando questo inverno…
«Devo dire che la mia situazione in questo momento è molto tranquilla e serena. Mi alleno e come sempre faccio tutto quello che devo per tenermi in forma. In ogni caso vorrei correre in una situazione buona, non vorrei trovarmi in cose in cui magari potrei far fatica. Questo è è il mio pensiero in questo periodo».
Stai cercando solo una sella nel mondiale SBK oppure anche in altre categorie?
«Ovviamente il mio mondo è il World SBK, quindi mi piacerebbe correre lì. E’ di certo il campionato che mi interessa di più, ma ci correrei solo in situazioni valide».
Come mai non è continuato il tuo impegno in Honda dopo le wild card del 2017?
«In Honda mi sono trovato bene ed anche loro si sono trovati bene con me. Dal management alla squadra. Solo che per uno sponsor come Red Bull, l’americano Jake Gagne è probabilmente la scelta migliore e io la capisco, inutile nascondersi dietro un dito».
In questo periodo c’è molto trambusto dopo le decisioni di Faccani e Guevara..
«Esattamente come dissi io tre anni fa! All’epoca fui rpeso male, ma secondo me è esattamente così. Quando arrivi a correre ad alto livello, quando arrivi ad un mondiale, è giusto che ti paghino. Se sei lì, se un team ha pensato a te, vuol dire che hai già fatto una gavetta, hai già dato tanto. E’ giusto che ad un certo punto, questo percorso che si chiama appunto gavetta, finisca e che inizi il professionismo. Questa strada la intraprendi quando entri in un mondiale, in qualsiasi categoria dalla Supersport alla Superbike, un pilota non solo non deve pagare, ma deve essere pagato ed incentivato. Non è perchè i soldi danno qualche motivazione per andare più forte, perchè intanto non c’è nessun aspetto economico che ti fa rischiare quello che rischi essendo un pilota. Secondo è una questione di darsi un valore, avere una dignità umana e sportiva, che secondo me è importante in tutti gli sport professionistici. Quando ho letto di Guevara e Faccani ho pensato:”ecco, magari i piloti iniziano a svegliarsi e non sono annebbiati dall’aspetto sportivo, dalla voglia di esserci per forza”. Dobbiamo ricordare che parliamo di ragazzi che magari corrono da quando hanno 5 o 6 anni e magari arrivano a 28 anni che hanno già più di venti anni durante i quali sono sempre stati in moto. Siamo dei ragazzi fortunati, perchè si tratta in ogni caso di una vita bellissima, che ti permette di girare in mondo. E’ una cosa in un certo senso invidiabile da un certo punto di vista, ma c’è anche un altro aspetto da considerare».
A cosa ti riferisci?
«C’è il rischio, c’è una vita che ti porta ad essere un nomade, con tante difficoltà sotto tanti aspetti. Spesso non puoi studiare, non ti godi la vita. E poi fai una vita da professionista, che vuol dire allenarsi, mangiare in un certo modo,fare un certo tipo di vita, fare tanti sacrifici. Che ben venga se poi sei trattato da professionista, ma questo non succede quasi mai. Qui nessuno pretende la luna, ma ogni talento ha il suo prezzo. Nessuno dei ragazzi appena citati vuole andare fuori mercato, ne sono certo. Ma sono anche certo che ognuno di loro vuole essere valorizzato, come è giusto che sia. Io spero che sempre più piloti riescano a puntare i piedi».
Pensi che potrebbe cambiare qualcosa in futuro da questo punto di vista?
«Vedi, secondo me il business nel Racing può essere del Team, ma il pilota non può essere un “socio” di questo business».
Pensi che questi aspetti nel mondo del Racing possano sfuggire agli appassionati che seguono le gare?
«Non sfuggono, non penso che sfuggano per niente. Se ricordi, facemmo una intervista proprio su questo argomento e dissi cose simili a questa. Io sono molto attento e ricordo che tanti commenti non furono carini. Fare il pilota sarà bello, sarà figo. Ma è un lavoro, un lavoro vero e proprio. La gara vera e propria, cioè quel momento di massima adrenalina che dura una quarantina di minuti, termina e dopo manco cinque minuti sei già con la testa alla prossima gara, alle prossime prove, al prossimo allenamento. E’ un lavoro a tutti gli effetti, con la variabile del rischio di farsi male che è molto forte».
Cos’è che potrebbe far cambiare la percezione?
«Secondo me tutti i piloti che arrivano al mondiale, devono rendersi conto che se sono lì, senz’altro hanno talento, non sono lì per caso. Per me, se non hai un vero talento, non dovresti arrivarci a correre a certi livelli. Facendo invece come si fa oggi, succede che chi ha meno talento ma ha una valigia grossa, arriva a correre il mondiale, mentre magari chi ha più talento ma non ha soldi, non ci arriva. Non tutti possono avere ambizioni di vittoria, ma ci sono tanti piloti con talento che con certe moto potrebbero arrivare in top ten, magari fare qualche quinto posto o risultati simili, che per un mondiale sono risultati importanti. Invece al posto di questo tipo di pilota, spesso viene preso quello che ha meno talento, ma ha la valigia bella carica e che se fa dodicesimo è un gran risultato. Spesso chi deve scegliere dice: “tanto non posso vincere, prendo quello che mi porta 100, 200 mila euro”».
Certo facendo così non si fanno arrivare i talenti dove dovrebbero essere e mortifichi lo sport…
«Il problema è proprio questo, per me le lo Sport dovrebbe essere questo: meritocratico, aperto al talento. Si dovrebbe premiare solo il talento. Io mi ritengo fortunato da questo punto di vista, perchè mio padre ha sempre lavorato da persona onesta, mia madre è una casalinga, non vengo da chissà dove. Eppure sono arrivato a correre ad alto livello nel mondiale SBK con squadre ufficiali, sono diventato campione con la Stock 1000. Non sono riuscito a vincere nel mondiale SBK, ma ho fatto tanti podi, delle pole. Pensando da dove sono partito, se mi guardo indietro mi sento più che soddisfatto. Certo, potevo fare molto meglio…».
C’è però da considerare che saresti anche potuto non arrivarci. Quindi la tua non si può che vedere come un’ottima carriera.
«Si, è così ed è per questo che ho questa visione. Io adesso ho 28 anni, e non sono per niente vecchio, anzi. Quasi tutta la griglia SBK ha un’età superiore alla mia, ma io non sento la necessità di correre per forza. Se devo correre, lo faccio da professionista»
Hai parlato del tuo titolo Stock. Come mai non c’è mai stato un ritorno di fiamma con Althea, con Genesio Bevilacqua?
«Abbiamo fatto un percorso molto bello insieme, e lo stesso Genesio mi ha aiutato ad entrare in Ducati da ufficiale. Secondo me però tutte le cose hanno un inizio ed una fine. Abbiamo fatto cose bellissime insieme, dei podi con una moto privata in SBK. Abbiamo lavorato in modo eccezionale assieme, ma poi con Genesio abbiamo deciso assieme che le nostre strade si sarebbero divise a fine 2013. Lui mi ha aiutato molto. E’ stato giusto così, dopo ognuno di noi ha percorso la sua strada».
Ci sono tanti piloti che dalla SBK stanno iniziando a passare sempre più spesso nell’Endurance, una disciplina dove in tanti corrono da professionisti. Tu cosa ne pensi? Abbiamo visto tutti come sta andando Niccolò Canepa e tu con lui hai corso molti anni.
«L’Endurance è un campionato che ho iniziato a seguire proprio per Niccolò. Siamo più o meno coetanei ed abbiamo corso tante volte assieme. E’ una disciplina che mi piace molto, ma devo essere sincero. Come in tutte le cose è anche una questione di contatti nella vita per entrare in certe situazioni. Io non ho mai avuto questa opportunità, tutte le mie conoscenze sono concentrate nel mondiale SBK. Poi magari capita anche che quando mi è capitato di incontrare qualcuno, non c’è stato modo di parlarne. A volte capita che uno ti vede correre in SBK, prima in Ducati, poi in Honda, non pensa che forse potresti anche fare altro. Ma per me sarebbe interessante».
Per il BSB invece? Pietra sopra?
«Il British SBK è un campionato bellissimo. Nessuna pietra sopra, nella vita non si sa mai. Ma il punto è che quello è un campionato difficilissimo con un livello molto alto, dove per andare forte devi esserci nato. E’ un campionato per specialisti. Io sono arrivato lì quando ero abituato ad altre piste, altre moto. Ho corso una gara sola, e non sono andato neanche piano sul giro secco. Ma è proprio l’intero sistema che è diverso e secondo me anche il percorso inverso è difficile. Guarda come è andato Brookes nel mondiale SBK e apriamo una piccola parentesi su Guintoli, che di certo non è un fermo. Con la Suzuki nel BSB ha faticato moltissimo. Io non so come fosse la sua moto, però i Team nel BSB sono tutti ad un buon livello, quindi…».
Davide grazie per la tua gentilezza e in bocca al lupo per la stagione 2018. Speriamo tutti che tu possa trovare una signora moto con cui correre.
«Grazie, io farò il possibile. Per me sarà importante restare fedele alla mia idea. Non voglio diventare come tanti altri di cui potrei anche fare l’esempio, che pur di restare in un determinato mondo fanno di tutto. Non penso sia giusto, ma è un atteggiamento che capisco. Come ho detto prima, tanti piloti sono in questo mondo da quando sono giovanissimi, hanno in pratica passato tutta la vita nel Paddock e pensare di staccarsi è difficile. Io sono dell’idea che la vita è bellissima anche fuori dal Paddock e quindi mi piace pensare che se devo correre, deve essere da professionista. Non so se la mia intervista di un paio di anni fa ha pesato in qualche modo, ma mi auguro che la decisione presa da Faccani e Guevara, sia la dimostrazione di una maggiore consapevolezza dei piloti, che sia l’inizio di un cambiamento. Quando ne parlai io, fui anche molto attaccato. Magari ero troppo antesignano (ride, NDR). In ogni caso se un numero maggiori di piloti punterà i piedi, sono certo che le cose andranno meglio. Per quello che mi riguarda, io sono aperto a tutto ma con un minimo di paletti. Non voglio fare il tipo che se la tira, ma semplicemente mi piace pensare di avere un valore, il mio valore. Se trovo chi me lo riconosce, sarò felice di abbracciare un progetto e mi auguro che tanti altri piloti inizino a darsi un valore. Penso che sia anche una questione di rispetto verso te stesso e credo che chi non rispetta se stesso, non potrà mai neanche andare forte in moto. Quando sali in sella, devi sapere che le persone credono in te, non devi pensare a come pagare i debiti che hai fatto per correre».