History
La leggenda svanita dei riders Samurai
I giapponesi sono famosi per ordine, disciplina e rigore. Ma quando indossano il casco sono dei veri casinisti. Ricordiamo il periodo in cui vedere tanti piloti giapponesi in griglia era la norma e non la rarità
Il Paese del Sol Levante ha iniziato a dedicarsi alla produzione delle moto molto presto, mostrando una grandissima attitudine in questa arte ingegneristica. Le quattro sorelle giapponesi, hanno regalato negli anni delle vere perle alla produzione motociclistica mondiale e gli appassionati dell’epoca ricordano come fosse ieri lo sbarco della Honda CB 750 Four in Europa, che cambiò per sempre la concezione di moto sportiva, alzando l’asticella delle prestazioni a livelli fino a quel momento difficili da immaginare.
Non c’è molto di cui meravigliarsi, poiché è scritto nel DNA dei giapponesi e nella loro etica del lavoro la concezione secondo cui è una questione di onore il fatto di primeggiare, essere migliori degli avversari in ogni aspetto. La cultura giapponese insegna che la vita dovrebbe essere una costante ricerca della perfezione e questo insegnamento fa parte del backround di tutti gli ingegneri che negli hanno sfornato gioielli tecnologici come la Honda NR 750, oppure la bellissima Yamaha R7.
Questa ricerca della perfezione è però tanto forte negli ingegneri, quanto pressoché assente nei piloti. I riders giapponesi sono infatti storicamente casinisti, a dispetto del rigore e dell’organizzazione che tutti si aspetterebbero da loro. Il racconto dei festeggiamenti per la 8 Ore di Suzuka fatti da coloro che vi hanno partecipato in prima persona, sembrano quasi da leggenda. L’immagine dell’assoluto rispetto delle regole e della ricerca di quel quid in più da parte dei reparti corse di Tokyo, Akashi, Iwata ed Hamamatsu, si scontra violentemente con le dichiarazioni di Noriyuki Haga, che spiega il proprio rigidissimo protocollo di allenamento ad una giornalista alquanto sorpresa dal candore di Nitronori.
https://www.youtube.com/watch?v=sOGQwuCt_44
Pensando ad Haga, è naturale pensare ad un’altra icona della Yamaha che purtroppo non c’è più e ci riferiamo ovviamente a Norick Abe. Il suo debutto nella 500 passò alla storia, consegnando l’immagine di questo fumetto in carne ed ossa, che sarebbe stato maggiormente a proprio agio in un Manga piuttosto che nel paddock del motomondiale, e che non ebbe timori di affrontare a viso aperto gente come Schwantz, Doohan & Co. Bandana al collo, capelli lunghi che spuntano dal casco ed un nickname sul cupolino che recita la scritta “Norifumi” e che sarà rubata da un giovanissimo Valentino Rossi, tanto affascinato da quella gara da raccontare di averla vista e rivista ogni giorno per mesi. Innamorandosi di quel giapponesino un pò folle al punto da scegliersi il nickname Rossifumi da piazzare sul cupolino delle proprie moto in pista.
Passa qualche anno e la Honda porta nel mondiale una giovane promessa che incrocia la strada di Fausto Gresini. Parliamo di Daijiro Kato, che incarna forse meglio lo stereotipo di pilota giapponese educato, pulito, corretto ed impegnatissimo nel suo lavoro. E Daijiro in pista era semplicemente uno spettacolo da vedere. Pulito ma al contempo aggressivo. Ebbe la chance di debuttare nella Top Class nell’ultimo anno di vita della 500, in quella prima stagione davvero pazza che fu il 2002 in cui convivevano in pista le neonate MotoGP e le mitiche 500 2T. Il giapponesino ebbe una NSR500 ereditata da sua maestà Rossi, che stava allevando con amore la fiammante RCV 5 cilindri. Daijiro andava talmente forte con la “vecchia” 500 da tenere spesso testa in pista ai piloti con le MotoGP, unico a riuscire in questa folle impresa assieme ai due espertissimi Capirossi e Barros. Un pilota che fece letteralmente innamorare il team Gresini, i cui meccanici dell’epoca raccontano ancora oggi quanto fosse diverso il Daijiro pubblico, così schivo e timido, rispetto al ragazzo giapponese un pò folle con cui era un piacere andare a bere qualcosa dopo le gare.
In quegli anni era assolutamente normale incrociare in pista cinque o sei giapponesi solo nella top class, per non parlare dell’autentico schieramento di ragazzini con gli occhi a mandorla che venivano mandati in 125 e 250 a farsi le ossa per prepararsi alle moto da grandi. Oggi i piloti giapponesi sono distanti dalla MotoGP e nessuno partecipa regolarmente al campionato. Ma domenica ci saranno tre wild card come ai bei vecchi tempi, con tre ragazzi che hanno corso e vinto anche alla 8 ore di Suzuka per Honda e Yamaha.
Una volta queste Case mettevano a disposizione le proprie moto ai team, a patto che questi facessero correre almeno un pilota giapponese in squadra. Quei tempi sono lontani, con il baricentro che si è spostato sempre di più verso l’Europa Dornacentrica. Anche dagli USA non arrivano più talenti e ultimamente per avere chance devi essere spagnolo, tedesco, francese, inglese o al massimo italiano. Sembra una barzelletta, invece è tutto vero.
Per fortuna domenica a Motegi ci saranno in griglia Takumi Takahashi con una RCV, Katsuyuki Nakasuga in sella ad una M1 e Kousuke Akiyoshi che sostituisce Abraham utilizzando la sua Honda RCV Open. Speriamo che i ragazzacci terribili possano portare un tocco di quella magica alchimia che da sempre accompagna i giapponesi quando decidono di fare i piloti invece che gli ingegneri. Un ingegnere giapponese mette in gioco le proprie conoscenze e le sue idee per costruire la più bella e veloce tra le moto. Un pilota giapponese tiene aperto il gas oltre il normale e stacca sempre un metro dopo. Non importa cosa tu sia, ma se vieni dal Giappone il tuo impegno sarà sempre il massimo. E’ una questione di onore.
“Dicono che il Giappone è nato da una spada. Dicono che gli antichi Dei hanno immerso una lama di corallo nell’oceano e che al momento di estrarla quattro gocce perfette sono cadute nel mare. E che quelle gocce sono diventate le isole del Giappone. Io dico che il Giappone è stato creato da una manciata di uomini coraggiosi. Guerrieri disposti a dare la vita per quella che sembra ormai una parola dimenticata. Onore.”